Blockchain: nemica dell’ambiente?

Cos’è la blockchain, a cosa serve e come funziona?

Tra le svariate definizioni attribuite alla tecnologia blockchain, una di quelle più chiare ed esaustive si può riscontrare dall’Osservatorio del Politecnico di Milano. Quest’ultima afferma che: la blockchain ("catena di blocchi") “è una tecnologia che consente di gestire e aggiornare, in modo univoco e sicuro, un registro contenente dati e informazioni in maniera distribuita, ovvero aperta e condivisa, senza la necessità di un’entità centrale di controllo e verifica”.

Il primo aspetto rilevante di questa definizione è che questa tecnologia consente di inserire informazioni all’interno di “nodi” che non possono essere né manipolati e né modificati da alcun soggetto, offrendo quindi massima trasparenza e decentralizzazione. Il secondo aspetto rilevante è relazionato “all’assenza della necessità di un’entità centrale di controllo e verifica”. Questo sta a significare che la blockchain ha l’obiettivo eliminare la presenza di intermediari durante le transazioni. Infatti, al fine di eseguire una modifica, i nodi devono raggiungere il consenso condiviso.

Al fine di chiarire il reale funzionamento della blockchain, si vuole illustrare un breve esempio. Immaginiamo che due soggetti debbano effettuare una transazione: X deve vendere un macchinario a Y. Per poter far ciò, viene creata una transazione costituita da una serie di elementi e informazioni concernenti questo scambio. La transazione in questione verrà quindi inserita all’interno di un blocco insieme ad altre movimentazioni. Quest’ultimo verrà successivamente validato dagli utenti della rete blockchain che si dedicano all’attività di mining. Una volta validato, il blocco verrà aggiunto alla catena precedentemente creata e sarà accessibile a tutti i partecipanti.

Ad oggi, la blockchain non è più solamente relazionata al mondo delle criptovalute, ma si sta espandendo sempre più anche all’interno di diversi settori aziendali. Possiamo ad esempio citare l’uso della blockchain per la registrazione di diritti e brevetti e per monitorare la supply chain aziendale.

Mining vs. sustainability

L’attività di mining, legata alla validazione del nuovo blocco contenente transazioni, deriva dal sistema del proof of work. In questo modo i miners esercitano l’attività di creazione dei blocchi grazie a un sistema di risoluzione per tentativi di un complesso problema di calcolo. In caso di risoluzione, il miner riceve una certa quantità di BTC e commissioni sulle transazioni iscritte nel blocco stesso, motivo per cui vi è l’incentivo a esercitare l’attività in questione.

A livello tecnico, la necessità derivante dalla validazione delle transazioni permette di evitare modifiche al registro distribuito. Infatti, esistono copie del libro mastro in tutti i nodi della rete e, grazie alla verifica, una qualsiasi modifica comporterebbe un disallineamento tra le copie esistenti. Infatti, un attacco malevolo sarebbe possibile solo se più del 50% dei validatori desse il consenso sulla versione modificata del registro.

In passato, per esercitare quest’attività, era sufficiente un qualsiasi computer domestico. Con il trascorrere degli anni e con l’aumentare della complessità della risoluzione dei problemi, è sorta la necessità di utilizzare macchinari ad alta potenza di calcolo che siano operativi durante l’intero arco della giornata. Di conseguenza, essi consumano alti quantitativi di energia.

Solitamente, per contrastare il surriscaldamento e per non incorrere in costi eccessivi, l’allocazione di questi strumenti avviene in luoghi freddi e dove il costo dell’energia risulta più accessibile.

Barriere al mining

Nel corso del tempo, molti paesi hanno proibito l’utilizzo e l’estrazione di bitcoin. Dal 2018, questi, sono addirittura raddoppiati.

Ad esempio, la Cina ha negato la possibilità di scambiare la cryptomoneta e di eseguire l’attività di mining. Questo ha comportato il trasferimento in Kazakhstan di circa 90 mila estrattori cinesi di bitcoin.

Il Kosovo, invece, ha vietato il mining sul suo territorio a causa di un’eccessiva sottrazione di energia alla nazione.

Secondo il Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index, il mining di bitcoin consuma molta più energia di quanta ne venga utilizzata in Finlandia, Belgio o Argentina. Inoltre, si assume che l’energia utilizzata per la produzione della cryptovaluta sia decuplicata negli ultimi 5 anni.

Possibili soluzioni

Per risolvere il problema legato al quantitativo di energia consumata, sono stati implementati sistemi alternativi di validazione.

Un esempio è il proof of stake, il quale consente la validazione a nodi scelti in modo randomico. In particolar modo, la scelta avviene tra coloro che rispettano alcuni requisiti come, ad esempio, la quantità di valuta depositata a tal fine. In questo modo, la riduzione dei consumi potrebbe aggirarsi intorno al 90%.

Per disincentivare l’utilizzo malevolo della posizione di validatore, l’ammontare depositato da quest’ultimo (il quale non potrà essere utilizzato dall’utente, ma verrà conservato a fini di “garanzia”) verrà perso nel caso in cui la validazione non dovesse risultare consona e dovesse causare un tentativo di sabotaggio della rete.

Un’ulteriore soluzione è la proof of authority. In questo caso vi sono alcuni nodi fidati della rete che mettono in gioco la loro reputazione per la validazione delle transazioni. La differenza sta nel fatto che l’identità dei soggetti è conosciuta e che, inoltre, si perde l’idea di completa decentralizzazione. Questa è principalmente una soluzione per reti permissioned, ovvero reti non aperte a chiunque, ma composte da soggetti scelti e che, per ragioni distinte, possono avere anche una proprietà e un controllo.

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