Un monito per i Paesi asiatici: non investire più nelle centrali a carbone

L’accordo di Parigi e i Paesi asiatici

Nonostante il cosiddetto Accordo di Parigi sulle emissioni sia entrato in vigore nel 2016 - accordo che mira a limitare le emissioni di gas per contenere il riscaldamento globale entro i 20C e al quale ad oggi hanno aderito circa 200 paesi - ancora molte nazioni asiatiche pianificano parte dei loro investimenti nelle centrali a carbone. In particolare, sono 5 i paesi asiatici i responsabili dell’80% delle nuove centrali di carbone che sono state pianificate. Tali informazioni emergono dal report “Do Not Revive Coal” redatto da Carbon Tracker e pubblicato il 30 giugno 2021. Le nazioni responsabili dell’80% delle nuove centrali a carbone pianificate sono: Cina, India, Indonesia, Vietnam e Giappone; esse già oggi rappresentano il 75% della capacità produttiva di carbone mondiale.

L’antieconomicità del settore carbonifero

Dal report di Carbon Tracker emerge anche che il 92% delle nuove unità sarà antieconomico e potrebbero essere sprecati fino a 150 miliardi di dollari; ciò anche in ragione dell’alta potenzialità delle energie rinnovabili la cui convenienza economica diverrà nel prossimo futuro sempre maggiore rispetto a quella del carbone. Il report analizza le performance economiche e finanziarie future delle centrali di carbone, attualizzando attraverso il metodo del Net Present Value i flussi di cassa attesi di queste attività. Nella maggior parte dei casi l’NPV risulta essere negativo, segnale del fatto che non si dovrebbe procedere con tali progetti e nuovi investimenti, tanto più considerando la futura certa convenienza economica delle energie rinnovabili. Già oggi molte centrali a carbone sarebbero in perdita se non fosse per le regolamentazioni del mercato che spostano i costi sui consumatori; ciò avviene o attraverso l’applicazione di prezzi più alti dell’elettricità o, qualora siano finanziate dai governi, attraverso le tasse. Sempre più gli investitori di tutto il mondo hanno iniziato a rivolgere la propria attenzione verso investimenti che siano anche sostenibili, essendo la sostenibilità ambientale diventata un fattore determinante per le performance economiche di lungo periodo. In tal senso, Catharina Hillenbrand Von Der Neyen, capo di Power & Utilities di Carbon Tracker, ammonisce: “Questi ultimi bastioni dell'energia a carbone stanno nuotando controcorrente, quando le rinnovabili offrono una soluzione più economica che supporta gli obiettivi climatici globali. Gli investitori dovrebbero stare alla larga da nuovi progetti di carbone, molti dei quali potrebbero generare rendimenti negativi fin dall'inizio". In sostanza, le energie rinnovabili pulite acquisiscono sempre più convenienza economica rispetto al carbone, la cui economia risulta essere fragile attualmente e soprattutto nel futuro. Nel 2020, la produzione di carbone ha visto una diminuzione record del 4%, non solo a causa della minor domanda di elettricità dovuta alla pandemia, ma anche a causa del rimpiazzo del  carbone grazie all’energia eolica e solare. In ogni caso questo trend deve essere considerato irreversibile.

La Cina a confronto con un grande fondo governativo: quello norvegese

Stando al report in esame, la Cina è il maggior produttore di energia derivante dal carbone, con una capacità produttiva di 1,100 GW ed emissioni di CO2 pari a 450 milioni di tonnellate. Nel 2020, la Cina, nonostante abbia aumentato la capacità produttiva di energia eolica e solare è nel contempo l’unica grande nazione ad aver aumentato anche la produzione di carbone, oltre ad essere la nazione con metà dei nuovi progetti di energia a carbone a livello globale. Il presidente cinese Xi Jinping aveva dichiarato a settembre dell’anno scorso che le emissioni di carbonio del paese sarebbero iniziate a diminuire entro il 2030, ma gli esponenti della politica cinese hanno altresì ribadito che le centrali a carbone rappresentano una delle determinanti principali della crescita economica del paese, essendo le altre fonti energetiche rinnovabili ancora instabili. Oltretutto, la Cina investe non solo nei progetti di centrali a carbone entro i confini del proprio paese, ma anche al di fuori della Cina, come emerge dal Global Development Policy Center della Boston University: nel solo 2020 la China Development Bank e la Export-Import Bank of China hanno finanziato progetti nel settore carbonifero al di fuori della Cina per un valore di 474 milioni di dollari. Dall’altro lato della medaglia, invece, molti paesi stanno cercando di limitare fortemente gli investimenti nel settore del carbone: così il fondo governativo norvegese Global, tanto grande da detenere l’1,5% delle azioni di tutte le società quotate al mondo, ha regole severe che gli vietano di investire in società che producono più di 20 milioni di tonnellate di carbone termico all'anno o produrre energia di oltre 10.000 MW all'anno dalla combustione del carbone.

Conclusione

In ultima analisi, alcuni paesi continuano a investire nel settore carbonifero, ed in particolare i paesi asiatici, nonostante l’esistenza dell’Accordo di Parigi che spinge in direzione esattamente opposta per la salvaguardia dell’ambiente. Detti paesi dovrebbero, invece, maggiormente riflettere in ordine agli investimenti che intendono porre in essere nel prossimo futuro, con riguardo nello specifico alle centrali a carbone, perché è di tutta evidenza che oltre a dover noi tutti preservare il mondo in cui viviamo anche mediante comportamenti virtuosi che non procurino inutili danni all’ambiente, un tale investimento nel lungo periodo si rivela persino antieconomico. Tim Buckley, esperto di mercati energetici presso l'Institute of Energy Economics and Financial Analysis afferma: “Non c'è alcuna prospettiva di crescita a lungo termine per l'industria [del carbone]. È come cercare di afferrare un coltello che cade".

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